C’è un Ansa di ieri che dice questo:
ROMA – Aveva duramente criticato un suo subordinato, durante l’orario di lavoro, usando “’espressioni volgari” e dicendogli, in modo dispregiativo, che non faceva nulla al lavoro. La Suprema Corte di Cassazione ha confermato la condanna per ingiuria nei confronti di un dirigente di una società di Roma che aveva così offeso il suo dipendente. Il capo, infatti, aveva detto :”mò mai rotto li co…, io voglio sapè te che ca… ci sta a fa’ qua dentro, che nun fai un cacchio ed altro”. Il dipendente aveva così denunciato il proprio datore di lavoro che era stato condannato per ingiuria dalla Corte di Appello di Roma nel marzo 2006. La quinta sezione penale della Cassazione, nella sentenza 42064, ha ricordato che ”in tema di ingiurie, affinchè una doverosa critica da parte di un soggetto in posizione di superiorità gerarchica ad un errato o colpevole comportamento, in atti di ufficio, di un suo subordinato, non sconfini nell’insulto a quest’ultimo, occorre che le espressioni usate individuino gli aspetti censurabili del comportamento stesso, chiariscano i connotati dell’errore, sottolineino l’eventuale trasgressione realizzata. Se invece le frasi usate, sia pure attraverso la censura di un comportamento, integrino disprezzo per l’autore del comportamento, o gli attribuiscano inutilmente intenzioni o qualità negative e spregevoli, non può sostenersi che esse, in quanto dirette alla condotta e non al soggetto, non hanno potenzialità ingiuriose”.
Interessante! Soprattutto se si considera che poco tempo fa proprio la cassazione ha detto che “vaffanculo” si poteva dire. Ma qui il discorso non è sull’orientamento vacillante della Suprema Corte. E nemmeno sulle parolacce. Del resto, se fosse possibile monitorare il linguaggio usato nelle aziende, nei reparti, nei cantieri o per le strade, quando si lavora, e dovessimo applicare questo criterio “puritano” – legittimo, per carità – per stabilire la correttezza di un rapporto, forse in Italia non lavorerebbe più nessuno. Il discorso da farsi è su come questa sentenza possa fare presa su una certa tipologia di lavoratore. Infatti, basta farsi un giro sulla rete, nei diversi luoghi di discussione, per rendersi conto che il senso logico e letterale della “pronuncia giurisprudenziale” è già stato travisato da chi sostiene che il datore di lavoro non possa legittimamente “riprendere” il subordinato. Ne ho lette già di tutti i colori. C’è chi non tollera di essere redarguito, e per questo, se dovesse succedere, sarebbe capace di lasciare il lavoro; c’è chi dice: “sono d’accordo con la sentenza, perché a me le cose bisogna chiederle con gentilezza … lo dice anche il sindacato”. Altri che per mera solidarietà di classe hanno applaudito alla sentenza sostenendo: “hanno fatto bene, così imparano che non possono pretendere tutto da noi lavoratori”.
Potrei andare avanti con altri 100 esempi, facendo notare, peraltro, come alcune notizie sappiano fare il giro del Paese in meno di 24 ore. A questo punto mi domando: “ma avete capito veramente cosa dice la sentenza?”. Proviamo a rileggere alcuni passaggi. Dunque, ”in tema di ingiurie, affinchè una doverosa critica da parte di un soggetto in posizione di superiorità gerarchica ad un errato o colpevole comportamento, in atti di ufficio, di un suo subordinato, non sconfini nell’insulto a quest’ultimo, occorre che le espressioni usate individuino gli aspetti censurabili del comportamento stesso, chiariscano i connotati dell’errore, sottolineino l’eventuale trasgressione realizzata. Analizziamo questa prima parte. Ho evidenziato in grassetto quello che dovrebbe aiutarci a capire meglio. Stiamo parlando di ingiurie, prima di tutto. Questo è importante per capire in quale ambito ci muoviamo. Il giudice dice che un soggetto in posizione di superiorità gerarchica può esprimere – ovviamente – una doverosa critica. Ma quando lo fa, non deve sconfinare nell’insulto. In altre parole, se un tuo subordinato arriva tardi la mattina, nessuna sentenza ti impedisce di redarguirlo; solo che non puoi farlo con parolacce ed insulti diretti alla persona.
Seconda parte: … Se invece le frasi usate, sia pure attraverso la censura di un comportamento, integrino disprezzo per l’autore del comportamento, o gli attribuiscano inutilmente intenzioni o qualità negative e spregevoli, non può sostenersi che esse, in quanto dirette alla condotta e non al soggetto, non hanno potenzialità ingiuriose. Questo significa semplicemente che se pensi che il tuo collaboratore sia un figlio di puttana, non puoi approfittare di una sua mancanza per esprimere il tuo pensiero. Non c’entra nulla con il lavoro. Quindi, è meglio che te lo tieni per te.
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