Se il lavoratore si dimette la disoccupazione non spetta!

Il trattamento ordinario di disoccupazione, quello che presuppone almeno due anni di assicurazione al momento di inizio della disoccupazione e almeno 1 anno (52 settimane) di contribuzione nel biennio precedente l’inizio della disoccupazione, è riconosciuto ai lavoratori che versano in stato di disoccupazione involontaria. Questo significa che se il lavoratore si procura volontariamente la disoccupazione (e le dimissioni sono un atto volontario del lavoratore), l’indennità (o il sussidio, come molti lo chiamano) non spetta. Lo prevede l’art. 34, comma 5, della L. 448/98, che testualmente recita: “La cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni intervenuta con decorrenza successiva al 31 dicembre 1998 non dà titolo alla concessione della indennità di disoccupazione ordinaria, agricola e non agricola, con requisiti normali di cui al regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 aprile 1936, n. 1155, e successive modificazioni e integrazioni, e con requisiti ridotti di cui al decreto-legge 21 marzo 1988, n. 86, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 maggio 1988, n. 160, e successive modificazioni e integrazioni”.

Modulistica ufficiale per dimettersi!? Si stava meglio quando si stava peggio!

aiuto.jpgQuesta è la notizia: 

Dimissioni del lavoratore su modulistica ufficiale
Legge 17 ottobre 2007, n. 188
GU 8.11.2007, n. 260

 

Entra in vigore il 23 novembre 2007 la legge in materia di dimissioni volontarie dei lavoratori subordinati, collaboratori e associati in partecipazione. La novità fondamentale sta nel fatto che l’atto di dimissioni per iscritto dovrà essere presentato esclusivamente su modelli ufficiali a pena di nullità, modelli che dovranno essere approvati e distribuiti da Direzioni prov. lavoro, centri per l’impiego e i Comuni. Il modello avrà una validità temporale di 15 giorni dal suo rilascio.

Che dire di questa cagata esagerata? Hanno inventato un nuovo modello (ci manca solo la marca da bollo e poi è davvero un’opera tutta italiana) per impedire che il lavoratore firmi le dimissioni in bianco. In sostanza, è come sparare alla mosca con un cannone. Mi chiedo come mai non hanno pensato di coinvolgere i notai per un’ulteriore sicurezza delle dimissioni. Eh sì, perché chi garantisce che anche il nuovo modello non venga compilato dal lavoratore sotto la minaccia di un colpo di arma da fuoco? Oppure, come si fa a sapere se il lavoratore era nel pieno delle sue facoltà mentali? Allora meglio un’equipe medica affiancata da un notaio con almeno 25 anni di comprovata esperienza professionale. Poi al lavoratore gli facciamo fare la prova del palloncino, e se tutto va bene lo interroghiamo formalmente (con l’ausilio di un commissario di polizia) per vedere se cede psicologicamente alle pressioni del caso. Dopodiché, se tutti i parametri sono confermati, la volontà del lavoratore di andarsene dall’azienda può essere seriamente presa in considerazione.

Si stava meglio quando si stava peggio!

La malattia sospende il preavviso

A volte capita che dopo avere dato le dimissioni con preavviso sopraggiunga uno stato di malattia del lavoratore. Che si fa in questi casi? Il rapporto cessa ugualmente alla data prevista dalla lettera di dimissioni? Oppure, subisce una proroga pari al periodo della malattia stessa?

Per rispondere a queste domande, benché avessi una mia idea, ho trovato una sentenza della Corte di Cassazione del 16.07.1983, n. 4915, secondo la quale la malattia determina la sospensione del preavviso, con pagamento dell’indennità di malattia. Il preavviso riprende a decorrere dal rientro del lavoratore in azienda o dalla scadenza del periodo di comporto (il periodo massimo di copertura della malattia, che in genere è di 6 mesi). 

In altre parole, se il lavoratore consegna oggi – 19 novembre – la sua lettera di dimissioni con un preavviso di 30 giorni (e quando si parla di giorni, in diritto, non si parla di un mese, ma di 1, 2, 3 … 30 giorni) e successivamente si ammala per un periodo di 10 giorni, egli potrà legittimamente lasciare il suo posto di lavoro solo in data 29 dicembre (30+10=40 gg., da conteggiare uno per uno).

Come si calcola il TFR

calcolo.jpgNel corso di una vita professionale ci si trova spesso a cessare un rapporto di lavoro. E la domanda che ci si pone ogni volta è: come si calcola il TFR?  

Diciamoci la verità, la cosiddetta liquidazione è una bella invenzione che permette ad ogni lavoratore di ritrovarsi alla fine con un bel gruzzoletto messo da parte. Ma i dubbi sul quantum vengono, soprattutto perché questo tipo di conteggio avviene in una fase di distaccamento tra le parti. E non si sa mai! Meglio conoscere la procedura, così stiamo più tranquilli. 

Per calcolare il trattamento di fine rapporto esiste una “retribuzione utile”, come è definita dalla legge, che è quella che viene presa in considerazione per sviluppare i conteggi. Ma quale voce sul cedolino paga interessa ai fini del computo TFR? Molti la specificano con la voce “Imponibile TFR”, semplificandone l’individuazione. Ma chi ci dice che sia corretta? Qual è il criterio a monte per definire l’imponibile TFR che compare sui cedolini?  

Non starò qui a fare l’elencazione dettagliata di ogni componente retributiva utile per il TFR, ma in quella voce (retribuzione utile per il TFR, imponibile TFR ecc.) devono entrare tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale, compreso l’equivalente delle prestazioni in natura. Quindi, minimo, contingenza, edr, 13°, 14° e ogni altra somma corrisposta abitualmente. Un premio ad personam corrisposto una tantum in occasione di un particolare evento, ad esempio, non fa parte della retribuzione utile, a meno che esso non venga corrisposto ogni anno. In tal caso diventa abituale e concorre a formare l’imponibile per il calcolo del TFR. 

A questo punto, sappiamo dove cominciare a guardare sul cedolino. Ma il TFR è un’altra cosa. È solo una parte di quella retribuzione utile che ogni anno viene accantonata (oggi anche presso fondi specialistici). Come si determina? Semplice! L’ammontare del TFR spettante al lavoratore è uguale alla somma, per ciascun anno di servizio, della retribuzione utile divisa per 13,5. In altre parole, si prendono tutti i cedolini dell’anno, si sommano le retribuzioni utili (corrisposte in dipendenza del rapporto a titolo non occasionale) ed il risultato deve essere diviso per 13,5. Per capire meglio, ipotizziamo che Tizio abbia avuto nell’anno 2006 una “retribuzione utile” di € 20.000. La procedura di calcolo è la seguente 

20.000 : 13,5 = 1.481,48 (accantonamento) 

Questa operazione va fatta ogni anno, e la quota di accantonamento che se ne ricava viene sommata a quella dell’anno precedente, che a sua volta viene rivalutata con l’applicazione di specifici coefficienti ISTAT, dando vita al fondo TFROvviamente, il risultato è un TFR lordo, che andrà prima sottoposto a tassazione come per legge e poi corrisposto al lavoratore. Il tutto immediatamente dopo la cessazione del rapporto. A tale proposito vedi un mio precedente post sull’argomento, dal titolo “Il TFR va corrisposto al momento della cessazione del rapporto”.

LAVORO EFFETTIVO

pausa_lavoro.jpgIn alcuni contratti di ultima generazione, per indicare la durata di una prestazione, si usa la formula “lavoro effettivo”. Ad esempio, il periodo di prova è di 30 giorni di lavoro effettivo; oppure, l’orario è di 40 ore di lavoro effettivo. Ma cosa si intende per lavoro effettivo? Non certamente tutto quello che viene pagato in busta paga, e neanche quello corrispondente al rendimento dell’unità lavorativa. Molto più semplicemente si considera lavoro effettivo tutto ciò che richiede un’applicazione assidua e continuativa da parte del lavoratore. Rispetto all’orario, la legge vi fa rientrare anche le soste non superiori ai 15 minuti, la timbratura del cartellino e le operazioni di vestizione o svestizione (cd tempo tuta). Mentre non fanno parte del lavoro effettivo: 

         i riposi intermedi presi all’interno o all’esterno dell’azienda;

         il tempo impiegato per recarsi al lavoro;

         le soste di lavoro superiori ai 15 minuti, durante le quali, appunto, non sia richiesta alcuna attività lavorativa. 

Per estensione, il concetto di lavoro effettivo applicato al periodo di prova esclude che possa tenersi conto delle malattie, delle ferie, del sabato e della domenica e di tutto ciò che è retribuito ma non lavorato.

Sentenza della Cassazione: redarguire sì, ma senza insulti

pr1.jpgC’è un Ansa di ieri che dice questo: 

ROMA – Aveva duramente criticato un suo subordinato, durante l’orario di lavoro, usando “’espressioni volgari” e dicendogli, in modo dispregiativo, che non faceva nulla al lavoro. La Suprema Corte di Cassazione ha confermato la condanna per ingiuria nei confronti di un dirigente di una società di Roma che aveva così offeso il suo dipendente. Il capo, infatti, aveva detto :”mò mai rotto li co…, io voglio sapè te che ca… ci sta a fa’ qua dentro, che nun fai un cacchio ed altro”. Il dipendente aveva così denunciato il proprio datore di lavoro che era stato condannato per ingiuria dalla Corte di Appello di Roma nel marzo 2006. La quinta sezione penale della Cassazione, nella sentenza 42064, ha ricordato che ”in tema di ingiurie, affinchè una doverosa critica da parte di un soggetto in posizione di superiorità gerarchica ad un errato o colpevole comportamento, in atti di ufficio, di un suo subordinato, non sconfini nell’insulto a quest’ultimo, occorre che le espressioni usate individuino gli aspetti censurabili del comportamento stesso, chiariscano i connotati dell’errore, sottolineino l’eventuale trasgressione realizzata. Se invece le frasi usate, sia pure attraverso la censura di un comportamento, integrino disprezzo per l’autore del comportamento, o gli attribuiscano inutilmente intenzioni o qualità negative e spregevoli, non può sostenersi che esse, in quanto dirette alla condotta e non al soggetto, non hanno potenzialità ingiuriose”. 

Interessante! Soprattutto se si considera che poco tempo fa proprio la cassazione ha detto che “vaffanculo” si poteva dire. Ma qui il discorso non è sull’orientamento vacillante della Suprema Corte. E nemmeno sulle parolacce. Del resto, se fosse possibile monitorare il linguaggio usato nelle aziende, nei reparti, nei cantieri o per le strade, quando si lavora, e dovessimo applicare questo criterio “puritano” – legittimo, per carità – per stabilire la correttezza di un rapporto, forse in Italia non lavorerebbe più nessuno. Il discorso da farsi è su come questa sentenza possa fare presa su una certa tipologia di lavoratore. Infatti, basta farsi un giro sulla rete, nei diversi luoghi di discussione, per rendersi conto che il senso logico e letterale della “pronuncia giurisprudenziale” è già stato travisato da chi sostiene che il datore di lavoro non possa legittimamente “riprendere” il subordinato. Ne ho lette già di tutti i colori. C’è chi non tollera di essere redarguito, e per questo, se dovesse succedere, sarebbe capace di lasciare il lavoro; c’è chi dice: “sono d’accordo con la sentenza, perché a me le cose bisogna chiederle con gentilezza … lo dice anche il sindacato”. Altri che per mera solidarietà di classe hanno applaudito alla sentenza sostenendo: “hanno fatto bene, così imparano che non possono pretendere tutto da noi lavoratori”. 

Potrei andare avanti con altri 100 esempi, facendo notare, peraltro, come alcune notizie sappiano fare il giro del Paese in meno di 24 ore. A questo punto mi domando: “ma avete capito veramente cosa dice la sentenza?”.  Proviamo a rileggere alcuni passaggi. Dunque, ”in tema di ingiurie, affinchè una doverosa critica da parte di un soggetto in posizione di superiorità gerarchica ad un errato o colpevole comportamento, in atti di ufficio, di un suo subordinato, non sconfini nell’insulto a quest’ultimo, occorre che le espressioni usate individuino gli aspetti censurabili del comportamento stesso, chiariscano i connotati dell’errore, sottolineino l’eventuale trasgressione realizzata. Analizziamo questa prima parte. Ho evidenziato in grassetto quello che dovrebbe aiutarci a capire meglio. Stiamo parlando di ingiurie, prima di tutto. Questo è importante per capire in quale ambito ci muoviamo. Il giudice dice che un soggetto in posizione di superiorità gerarchica può esprimere – ovviamente – una doverosa critica. Ma quando lo fa, non deve sconfinare nell’insulto. In altre parole, se un tuo subordinato arriva tardi la mattina, nessuna sentenza ti impedisce di redarguirlo; solo che non puoi farlo con parolacce ed insulti diretti alla persona. 

Seconda parte: … Se invece le frasi usate, sia pure attraverso la censura di un comportamento, integrino disprezzo per l’autore del comportamento, o gli attribuiscano inutilmente intenzioni o qualità negative e spregevoli, non può sostenersi che esse, in quanto dirette alla condotta e non al soggetto, non hanno potenzialità ingiuriose. Questo significa semplicemente che se pensi che il tuo collaboratore sia un figlio di puttana, non puoi approfittare di una sua mancanza per esprimere il tuo pensiero. Non c’entra nulla con il lavoro. Quindi, è meglio che te lo tieni per te.

Come si presentano le dimissioni

scrivere.jpgTorniamo a parlare di dimissioni. Questa volta però con riferimento al modo e alla forma che la legge prevede per esplicitarle. In altre parole, le dimissioni devono essere comunicate per iscritto? O sono valide anche quelle comunicate solo oralmente? Inoltre, se le dimissioni hanno l’effetto di far cessare il rapporto per volontà del lavoratore, da quale momento esse hanno efficacia? Bene! Diciamo subito che, in via generale, le dimissioni possono essere comunicate anche solo verbalmente, a patto che il CCNL applicato dall’azienda non preveda diversamente. Questo significa che se l’azienda è vincolata al rispetto del contratto collettivo (perché firmataria di un mandato negoziale alle organizzazioni di categoria o perché ha scelto sic et simpliciter di richiamare quella disciplina contrattuale), e quest’ultimo prevede la forma scritta, l’eventuale inosservanza del CCNL produce l’invalidità dell’atto di dimissioni (Cass. 25/02/98, n. 2048). Per farla semplice, è sempre meglio inviare una raccomandata o, tutt’al più, un fax che manifesti in modo inequivocabile la volontà di recedere. 

Riguardo all’efficacia delle dimissioni, esse hanno effetto dal momento in cui vengono conosciute dal datore di lavoro (Cass. 12/07/2002, n. 10193), intendendosi per datore di lavoro chiunque abbia legittimamente il potere di impegnare l’azienda (es. amministratore). Questo significa che se il lavoratore non intende più presentarsi al lavoro e spedisce una raccomandata con le dimissioni, è sempre meglio far precedere detta raccomandata da qualche altra forma di comunicazione scritta (es. fax), se non addirittura da una telefonata, altrimenti si rischia di vedersi imputare un’assenza ingiustificata pari al periodo di tempo che impiega la raccomandata per arrivare nelle mani del destinatario, e di essere in questo periodo ancora responsabile del ruolo assegnato e dell’eventuale disservizio generatosi nel reparto per la mancanza imprevista di un’unità lavorativa.

Dimissioni: come evitare il preavviso.

mobilita2.gifLe dimissioni sono l’atto con il quale il lavoratore decide di porre fine al rapporto di lavoro. È una “manifestazione di volontà” libera ed incondizionata. Non ci sono limiti, dunque, tranne per il fatto che il lavoratore, come in ogni ipotesi di recesso, dovrebbe dare e rispettare il preavviso (art. 2118 c.c.). Uso il condizionale perché quello del preavviso sta diventando un vero e proprio dilemma. Una spada di Damocle che grava sulle spalle del lavoratore oramai privo di ogni motivazione a continuare. In effetti quando si decide di andare via, di cambiare lavoro, di porre fine al rapporto, il lasso di tempo che intercorre tra la comunicazione e l’effettiva risoluzione è solo una formalità. Il lavoratore teoricamente è già fuori dall’azienda. Lo è con la testa e con il cuore. Quindi, rimanere altri 15 giorni, dopo avere trovato il coraggio (in alcuni casi) di dire al datore di lavoro “qui non ci voglio stare più”, è davvero stressante. Cosa si può fare per evitare questo tormento? Una soluzione ci sarebbe (non sempre valida), ma presuppone che il lavoratore attui una piccola strategia. L’obiettivo è quello di trovare un accordo sul fatto di andarsene. In altre parole, quando un lavoratore si dimette, molto spesso è perché mancano i presupposti di compatibilità ambientale. Non ci si trova bene! Ed è meglio chiudere il rapporto. Prestando un po’ di attenzione alla fattispecie, si può notare che le dimissioni fanno piacere anche al datore di lavoro (in giurisprudenza si parla di comportamenti concludenti), che si alleggerisce anche della responsabilità di dover decidere il licenziamento. Se questo è vero, se anche il datore di lavoro concorda sul fatto che è meglio chiudere il rapporto, ma non lo dice perché da parte sua si tratterebbe di intimare un licenziamento che potrebbe essere illegittimo, allora si può evitare il preavviso e, con esso, l’eventuale trattenuta dallo stipendio che spesso viene effettuata nei confronti di chi ha deciso di andarsene su due piedi. Si tratta di una risoluzione consensuale, prevista dall’art. 1372 del codice civile, che si concretizza nel fatto che entrambe le parti concordano sulla volontà di interrompere il rapporto di lavoro. Per concludere, prima di rassegnare le dimissioni, assicuratevi di poter addivenire una risoluzione consensuale. Il ragionamento da fare è semplice e funziona così: io me ne voglio andare, voi mi volete cacciare; a questo punto evitatemi il preavviso ed io me ne vado subito.

Il TFR va corrisposto al momento della cessazione del rapporto

tfr.jpgSpesso sento fare questa domanda: c’è un termine entro il quale l’azienda deve pagare il TFR? E siccome lo sento chiedere davvero molto frequentemente, mi viene il dubbio che qualcuno abbia potuto artatamente mettere in giro informazioni sbagliate sulla possibile esistenza di un termine riferito alla corresponsione del trattamento di fine rapporto. L’art. 2120, comma 1, cod. civ., dispone che al momento della cessazione del rapporto di lavoro (ripeto, al momento della cessazione del rapporto di lavoro)  l’importo spettante per trattamento di fine rapporto deve essere erogato al lavoratore. Tuttavia, solo in alcuni casi, il termine può essere ulteriormente definito dalla contrattazione collettiva. La Suprema Corte, in una recente pronuncia (Cass. n. 4822/2002), ha avuto modo di precisare che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere il t.f.r. immediatamente al momento della cessazione del rapporto, indipendentemente dalla disponibilità di tutti gli elementi di calcolo ed in particolare dell’indice ISTAT, altrimenti pagherà sulla somma anche gli interessi e la rivalutazione per ogni giorno di ritardo.

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